Emergenza Covid-19: salvaguardia della salute o tutela della privacy?
Alla luce della recente situazione di emergenza connessa alla diffusione nel nostro Paese del COVID-19 (c.d. Coronavirus), uno dei settori principalmente coinvolti è stato quello lavorativo dove l’esigenza di far fronte a tale situazione di criticità e la conseguente necessità di tutela del luogo di lavoro e della salute dei lavoratori, ha dato origine ad iniziative autonome e generalizzate da parte dei datori stessi.
Nelle ultime settimane da parte delle aziende si sono diffuse iniziative volte a svolgere accertamenti sui possibili contagi da COVID-19 dei propri dipendenti, fornitori, clienti e più in generale dei visitatori delle sedi, attraverso l’acquisizione di “autodichiarazioni” o la sottoposizione agli stessi di questionari in merito alla presenza di particolari sintomi, di informazioni sui loro ultimi spostamenti, i loro contatti extra lavorativi nonché alla rilevazione corporea della temperatura.
La maggior parte dei datori di lavoro si è trovato a dover far fronte alla necessità di salvaguardare la salute dei propri dipendenti mediante la raccolta di dati di tipo sanitario e sull’eventuale provenienza da aree di rischio; in questa condizione è sembrata venir meno la tutela alla riservatezza di determinati dati personali e particolari.
Nel caso di rapporto di lavoro subordinato una delle facoltà attribuite ai datori di lavoro è quella relativa alla valutazione del rischio biologico per la salute dei lavoratori, già previsto dalla normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro (D. Lgs. 81/2008), pertanto, il datore stesso è tenuto a valutare i rischi per la salute derivanti dall’esposizione agli agenti biologici presenti nell’ambiente di lavoro, sottoponendo il lavoratore e i soggetti terzi ad avvertimenti circa la natura degli stessi e alle misure di sicurezza e di prevenzione adottate per ridurli o attenuarli.
Va salvaguardata la salute e la sicurezza del luogo di lavoro e quindi vanno rese note informazioni dettagliate su eventuali casi conclamati o viene, comunque, in essere il diritto alla riservatezza delle persone malate a non vedere esposti i propri dati “particolari”?
Risulta fondamentale, e non di semplice interpretazione, analizzare quali possano essere le basi giuridiche del trattamento. È possibile parlare ex art. 6, lett. d), GDPR, per quanto concerne i dati comuni relativi ai soggetti interessati, di trattamento “necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica” con riferimento, in questo caso, al datore di lavoro o ai lavoratori stessi?
In introduzione al GDPR, il considerando 46, afferma che il trattamento di dati personali dovrebbe essere considerato lecito quando è necessario per proteggere un interesse essenziale per la vita dell’interessato o di un’altra persona fisica. Alcuni tipi di trattamento di dati personali possono rispondere sia a rilevanti motivi di interesse pubblico, sia agli interessi vitali dell’interessato; nello specifico la liceità del trattamento sarebbe fondata sulla necessità di tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione. Tale ipotesi sembrerebbe riconducibile all’attuale situazione. Le nozioni di “epidemia” o di “emergenza epidemiologica” vengono, altresì, utilizzate nel DPCM del 1° marzo 2020 contenente le misure urgenti di contenimento del contagio in attuazione del D.L. n.6/2020 e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, lo scorso 30 gennaio 2020, ha dichiarato l’epidemia da COVID-19 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale.
Possiamo altresì ricondurre il trattamento di categorie particolari di dati personali ex art. 9, c. 2, lett. i) all’interesse pubblico rilevante. La norma parla di trattamento necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica come “la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero”. Oltretutto, l’interesse pubblico si considera “rilevante” nelle materie previste dall’art. 2 sexies del D. Lgs. 196/2003, così come aggiornato dal D. Lgs. 101/2018, il quale alla lettera u) elenca i “compiti del servizio sanitario nazionale e dei soggetti operanti in ambito sanitario, nonché compiti di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro e sicurezza e salute della popolazione, protezione civile, salvaguardia della vita e incolumità fisica”.
Precedentemente la stessa Autorità Garante si era già espressa nel 1999 quando, nell’ambito di un caso relativo ad una donna sieropositiva, ci si era posti dinanzi alla necessità di avvertire le persone che avessero avuto contatti con la stessa, al fine di adottare le adeguate cautele ed evitare il rischio di contagio.
L’Autorità aveva individuato delle modalità di informazione degli individui più selettive, con dei meccanismi tali da poter comunque allertare le persone potenzialmente contagiate, evitando al contempo l’esposizione dell’interessata ai mezzi di informazione pubblici. Non venivano dunque contestate le finalità perseguite, ma le modalità di informazione utilizzate.
Un caso simile avvenne pure nel 2002, quando l’Autorità vietò da parte dei mezzi di informazione il trattamento dei dati personali di una ragazza sospettata di aver contratto la malattia di Creutzfeldt-Jacob (c.d. morbo della Mucca Pazza). La divulgazione di tale notizia, contraria al principio di essenzialità dell’informazione, costitutiva al contempo una grave violazione della dignità della persona.
A fronte dell’ultima emergenza, il Garante si è espresso qualche giorno fa prescrivendo delle raccomandazioni che riguardano, principalmente, la necessità di attenersi alle misure previste dal Ministero della Salute e dalle istituzioni competenti, tenendo conto della primaria finalità di prevenzione di fronte alla possibilità di diffusione dello stesso virus. In quest’ottica vengono vietate le iniziative “fai da te”, da parte dei datori di lavoro, nella raccolta di informazioni in ordine all’assenza di sintomi influenzali e a connesse vicende relative alla sfera privata del lavoratore.
I datori di lavoro devono pertanto astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa.
La finalità di prevenzione dalla diffusione del Coronavirus deve infatti essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni in modo qualificato.
Nel caso in cui, nel corso dell’attività lavorativa, il dipendente che svolge mansioni a contatto con il pubblico venga in relazione con un caso sospetto di Coronavirus, provvederà a comunicare la circostanza, anche tramite il datore di lavoro, ai servizi sanitari competenti attenendosi alle indicazioni di prevenzione fornite dagli operatori sanitari interpellati.
Sarà cura del lavoratore nel caso specifico segnalare al datore di lavoro qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza nel luogo di lavoro e spetterà poi a quest’ultimo coordinarsi con le autorità di competenza al fine di disporre le eventuali misure d’urgenza.